12 Dic Conversazione con Tiziano Terzani – Tratto da “Regaliamoci la pace”
Dedico questo libro a mia figlia che sta per nascere e a tutti i bambini, con la speranza che un giorno possano guardarci negli occhi rispettandoci per il mondo che siamo stati capaci di lasciare.
Lo dedico a voi che state leggendo e che avete un grande compito: regalare ad almeno una delle persone che conoscete la convinzione che la pace sia l’unica scelta possibile.
È un regalo che l’umanità intera si merita.
Ho sempre sostenuto l’importanza di saper restare coerenti con gli incanti e le utopie della propria adolescenza. Credo che le persone capaci di non tradire i sogni con cui sono cresciute mantengano una sorta di innocenza di fronte alla vita. Una purezza che li rende simili nell’affrontare i grandi temi. Un idem sentire più alto, che viene da lontano.
Uno dei dono più belli che la nostra esistenza ci concede è la possibilità di “riconoscersi”, l’attitudine a condividere con altri una comune sensibilità. Chi ha provato almeno una volta questa sensazione dimentica l’ombra della solitudine.
Dopo aver partecipato all’incontro tra il fondatore di Emergency Gino Strada, Tiziano Terzani, Sergio Cofferati, Don Luigi Ciotti, il missionario comboniano padre Alex Zanotelli e Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della Pace; ho avvertito l’esigenza di comunicare a quante più persone raggiungibili, le emozioni e le parole che hanno reso quella giornata speciale. L’essere all’ottavo mese di gravidanza non mi ha fermato, anzi, è stata una spinta in più.
Quei signori, pur giungendo da strade diversissime, erano lì, insieme, a costruire e a rappresentare una speranza. Diffondere una cultura di pace, non solo per chi è sempre stato convinto sia l’unico modo possibile per un mondo migliore, ma anche per chi ha cominciato a crederlo in quel preciso momento. E il messaggio giungeva forte e semplice: per dare visibilità a quest’idea tutti possiamo e dobbiamo fare qualcosa. Impegnandoci, con ogni mezzo, affinché il segnale che giunga dall’Italia e dall’Europa sia l’univoco rifiuto della guerra. A quel tavolo, voci diverse hanno parlato insieme la lingua della comprensione, della tolleranza, della non violenza; è vitale che il miracolo si ripeta e altri ancora si uniscano.
L’idea di questo libro nasce dunque sull’ennesima conferma dell’importanza del confronto, e della volontà di trovare un comune denominatore su un tema tanto essenziale. Il risultato è un “no alla guerra” deciso e gioioso, un soffio capace di toccare il cuore di tutti.
In occasione della redazione di Regaliamoci la pace sono arrivate tante conferme. Persone che stimavo mi hanno completamente conquistato con la loro sensibilità. Chi è davvero speciale comprende l’importanza dell’essere disponibile.
E’ essenziale che sempre più esseri umani superino la superficiale convinzione che il proprio contributo non serva. Siamo tutti necessari; di più, siamo indispensabili.
La speranza è che non ci sia l’intervento armato in Iraq, ma se così non fosse diventa fondamentale impegnarci subito, insieme, affinché l’Italia non prenda parte alla guerra. Per questo un instant book, per esserci, per garantire visibilità a una giusta aspirazione alla pace. Affrontando il rischio delle disattenzioni causate dalla fretta, ci siamo tutti impegnati per fare in modo che dall’ideazione alla consegna all’editore trascorressero non più di due settimane.
Avevo chiesto sia un contributo – poche cartelle che raccontassero le ragioni di una scelta di pace – che un regaloper i lettori; una citazione, una poesia, un’immagine, un ricordo; o comunque quanto ritenuto più opportuno per raggiungere l’animo di chi legge. Ciascuno ha scritto quanto di più spontaneo, per parlare di pace è semplicemente necessario ascoltare il proprio cuore. Questo ci concede il privilegio di scoprire prospettive inconsuete, spaziando in vari generi espressivi. Ciascuno a modo suo, con le proprie parole, sfiora le corde più sensibili della nostra anima.
La lunga conversazione con Tiziano Terzani, è stata per me – e mi auguro possa essere così anche per voi – oltre che uno straordinario ragionare sul significato profondo della pace, l’occasione per conoscere il suo particolare punto di vista sulla società, sull’informazione, sulla politica, sul futuro. Terzani osserva senza filtri le nostre perversioni e quelle della nostra epoca. Spazia, con l’innocenza dei suoi occhi non assuefatti, dalla condizione della nostra televisione all’immagine della sua Firenze, paradigma di un’Italia che ha bisogno di recuperare i propri valori.
E’ stato un privilegio ascoltarlo, il tono della sua voce trasmette entusiasmo, passione, con un divertente intercalare toscano per nulla scalfito da anni di Oriente. Abbiamo parlato per un giorno intero, avvertivo come anche la vita che mi cresce in grembo, e che sta solo aspettando che io finisca di scrivere per nascere, fosse felice di accogliere le sue parole.
Le nostre paure sul futuro non svaniranno, se continueremo a fingere di non sapere che questo è un momento cruciale. Il silenzio rende complici di chi uccide, non nascondiamoci.
Riappropriamoci dei grandi valori, dei temi essenziali, di un uso etico del libero arbitrio, a fronte di un sistema concentrato esclusivamente sui consumi e sull’appiattimento morale che questo comporta.
Decidere finalmente di ascoltare la propria coscienza, suscita, all’inizio, uno stordimento tipico delle sensazioni cui siamo poco abituati; poi, a poco a poco, si tramuta in una bellissima vertigine.
Per il mio dono di pace, ho scelto le parole di Gandhi e di San Paolo. Luoghi, religioni e secoli diversi si annullano, quando gli uomini conoscono l’amore.
E’ la legge dell’amore a governare l’umanità. Fosse stata la violenza a governarci, ci saremmo estinti già da chissà quanto tempo. (Mahatma Ghandhi)
Se parlo le lingue degli uomini e anche quelle degli angeli, ma non ho amore, sono un metallo che rimbomba, uno strumento che suona a vuoto.
Se ho il dono d’essere profeta e di conoscere tutti i misteri, se possiedo tutta la scienza e anche una fede da muovere i monti, ma non ho amore, io non ho niente. (San Paolo da Inno all’amore).
Conversazione con Tiziano Terzani
F.M. A sedici anni hai cominciato a fare il giornalista perché, come tu stesso hai raccontato nel tuo libro “In Asia”, arrivavi sempre ultimo alle gare podistiche. Avvicinandosi, un signore ti regalò un suggerimento: “…invece di partecipare alle corse, descrivile!”. Certo, eri arrivato al traguardo, ma il pubblico già stava tornando a casa. Hai scritto che da allora: “Largo, c’è i’ giornalista, detto in vari modi, in varie lingue, ti ha aperto la strada ai tanti luoghi attraverso i quali passava la storia. “Ogni volta (…) col senso di essere gli occhi, gli orecchi, il naso, a volte anche il cuore di quelli che non potevano essere lì.” Oggi le nuove tecnologie, un’informazione massificata ed omologata stanno cancellando la figura dell’inviato speciale, del testimone diretto capace di raccontare e comunicare notizie ed emozioni. Credi che questo sia un inevitabile dazio da pagare al progresso o che al contrario costituisca una ulteriore possibilità di mistificare la realtà delle cose e la visione della storia?
T.T. Mi capita spesso di ripetere ai giovani che il giornalismo non è un mestiere, non è una professione, ma un modo di vivere, una passione, una missione; al massimo, traducendolo in termini laici, possiamo definirlo un servizio pubblico. E’ stato un privilegio essere in prima linea nella cronaca che poi diventa storia, ma credo di essermelo conquistato.
Chiedi giustamente cosa abbia significato l’introduzione delle nuove tecnologie. Purtroppo su questo non riesco a essere ottimista. Il giornalismo è cambiato, ci sono vari tipi di perversione relative al modo in cui viene praticato oggi.
La prima perversione è la fretta, questa ansia delle notizie continue. Sembra indispensabile poter accendere queste maledette televisioni e sapere in quell’esatto momento cosa stia succedendo in tutto il mondo. Questo impedisce qualsiasi forma di riflessione, imponendo un’istantaneità nel reagire e nel registrare, che toglie qualsiasi possibilità ricerca del senso di quel che avviene.
La più grande perversione alla quale ho assistito è quella di piazza Tien an Men.
Eravamo in tanti in Cina durante il grande massacro. Ho visto giornalisti di famosi quotidiani che invece di guardare con i loro occhi, se ne stavano chiusi in una camera d’albergo a 200 metri dalla piazza, descrivendo quello che vedevano alla Cnn che aveva le telecamere sulla piazza. Come se – e qui la perversione raggiunge la sua più grande raffinatezza – la verità non potesse essere che quella trasmessa dalla televisione. La stessa verità che appariva nello stesso momento nelle redazioni di New York, di Amburgo, di Roma, quella che i direttori vedevano. Non ce ne poteva essere un’altra, per cui se tu fossi stata sulla piazza e avessi visto un’altra cosa, quella cosa non sarebbe potuta essere la verità. Giornalisti che scrivono e che dovrebbero provare direttamente delle emozioni, non hanno fatto altro che raccontare il massacro di piazza Tien an Men riflesso negli schemi dei loro televisori a 200 metri da dove avveniva.
Io ero fortunato perché scrivevo per un settimanale, oltretutto lo facevo una volta ogni mese, per cui avevo tutto il tempo per riflettere e cercare diversi punti di vista. Da allora l’ho visto succedere tante altre volte: chi non raccontava la stessa storia che era la verità di tutti, aveva dei problemi, si sentiva chiedere “ma tu, cosa hai visto?”
Un’altra perversione è l’istantaneità. Lo spettatore televisivo è diventato lo standard di tutti gli spettatori. Anche chi legge il giornale, in fondo, è stato traviato dall’attenzione televisiva, da un tempo determinato, così, ormai, non mantiene l’attenzione per più di tre minuti. Quando ho cominciato a fare il giornalista si potevano scrivere articoli di un’intera pagina, oggi se scrivi più di cento righe nessuno le legge. Il lettore è diventato uno spettatore che a volte consulta il giornale e vuole trovare tutte le notizie in pillole. Questa immediata percezione della verità è perversa perché tutti hanno l’impressione di essere dove le cose stanno accadendo, convinti di aver già capito tutto soltanto perché lo hanno visto in diretta. Questo è terribile perché impedisce la riflessione. Tutti ripetono “lo so perché l’ho visto alla televisione” ma in realtà non hanno compreso nulla.
Una bella cosa che invece sto notando da quando sono tornato in Italia, è che la gente ricomincia a sentire la radio. E’ interessante, vuol dire che c’è una via di ingresso della notizia che sono gli orecchi, mentre gli occhi rimangono presi da altro, magari dagli spaghetti che bollono. Significa molto, senza le immagini forse il cuore viene stimolato attraverso gli orecchi a riflettere.
Ho fatto un giro nelle scuole di giornalismo e i giovani mi chiedono sempre “Il mondo è cambiato, se lei dovesse fare il giornalista oggi che cosa farebbe?”. Io per provocazione rispondo: “lascerei subito questa scuola”. Il giornalismo non è una cosa che si impara nelle scuole. E’ come per un pittore, andando a scuola di pittura si diventa imbianchini, così i giornalisti non diventano giornalisti ma funzionari dei giornali. Purtroppo, e questa è un’altra forma di perversione, ormai sono quasi tutti funzionari, ovviamente con le dovute eccezioni.
Ai miei tempi, i grandi giornalisti che ho ammirato, più adulti ed anche miei coetanei, erano arrivati a questo mestiere perché non avevano potuto farne a meno. Era una cosa naturale, un istinto. Invece oggi si studia, si impara, si ascoltano ordini, e si diventa funzionari, geometri del giornalismo. Alcuni saranno anche più bravi di noi però vedo poca passione. Certamente ci vogliono anche i funzionari del giornalismo, quelli che mettono il giornale insieme, lo fanno uscire tutti i giorni, anzi, ringrazio Dio che esistano, ma non basta, altrimenti il risultato sarà perverso. Più questa perversione aumenta, più un certo numero di persone sentirà il bisogno di altro, e allora la riflessione, l’approfondimento saranno nuovamente richiesti.
Io non sono contro la modernità, – nella mia capanna in India lavoro con un piccolo computer, il più piccolo e il più leggero che ho trovato sul mercato, lo alimento con un pannello solare – dico semplicemente, dobbiamo noi dominare la modernità e non farci dominare, altrimenti finiremo con il diventare non uomini ma scimmie elettroniche. Noi veniamo dalle scimmie. L’uomo di oggi non è mica definitivo, siamo sempre in fase di cambiamento, ma verso cosa stiamo andando? Verso una scimmia elettronica come vorrebbe il sistema. Ma abbiamo una possibilità: calmiamoci, facciamo un passo in un’altra direzione, usiamo la tecnologia per il bene e per migliorare l’umanità, ma rimaniamo uomini, anzi cerchiamo di diventare meno materiali.
F.M. Mi viene in mente quando hai scritto che attraverso la televisione “abbiamo immagazzinato milioni di informazioni ma siamo diventati moralmente ignoranti”[1]. Quali mezzi possiamo dunque opporre all’inganno dell’infotainment, alla globalizzazione dei modelli di comportamento, alla manipolazione che questo sistema della comunicazione impone alle nostre coscienze? Soprattutto, credi che esista un modo alternativo, valido, eticamente corretto per utilizzare questo strumento tanto potente?
T.T. Ci deve essere, è bellissimo e giustissimo domandarselo; così come esiste la Banca Etica, deve esserci un sistema anche per la televisione.
Dobbiamo prima di tutto analizzare l’aspetto perverso di questa televisione.
Faccio un esempio concreto. In India ci fu il grande dilemma se aprire il mercato delle news ai mezzi occidentali. Per prima cosa arrivarono i giornali: iniziò il Wall Street Journal, e certo questo non cambiò le cose. Solo una piccola élite legge il Wall Street Journal in India, mica tutti i contadini indiani possiedono azioni!
Il problema si è posto enormemente con l’apertura del mercato televisivo. E’ arrivata una grande società che ha portato la traduzione in indi di Bay Watch, quel telefilm americano con tutte le donne poppute e seminude che salvano la gente nel mare della California. Ormai, persino sulle montagne, nei più piccoli villaggi dove non c’è nemmeno l’elettricità, laddove due batterie di automobile fanno funzionare i televisori utilizzando come antenna un aggeggio fatto con le lattine di Coca Cola. Così Bay Watch in pochissimo tempo è arrivato ovunque. I contadini indiani, pacifici, magri e allampanati hanno cominciato a picchiare le mogli, perché non avevano abbastanza seno e non si comportavano come le donne del telefilm.
E’ questo che vogliamo portare nel mondo?
Per prima cosa dobbiamo renderci conto della spaventosa potenza che il mezzo ha e poi certamente provare ad usarlo in maniera giusta.
In Cina nel momento in cui si aprivano le porte alla tecnologia occidentale, Teng Hsiao-ping diceva “è chiaro: entrerà l’aria quindi entreranno anche delle mosche”, io sostenevo che sarebbe entrato molto di più delle mosche. Ogni tecnologia riflette l’ideologia che l’ha prodotta. Ad esempio, le macchine per tessere, per setacciare il grano, sono frutto della diminuzione della nostra manodopera, abbiamo dovuto avere delle macchine che facessero quello che prima facevano gli uomini. Ma in un paese dove la manodopera abbonda quelle macchine non hanno senso, sono una contraddizione all’interno di quella società.
Anche la televisione nel modo in cui viene usata è frutto della nostra perversione economico-sociale, per cui non sarà molto facile usare quel mezzo in un modo diverso dalla logica che lo ha prodotto.
Dobbiamo difenderci da certi modelli di comportamento ricominciando a ragionare, sviluppando il nostro senso critico.
Guarda il telefonino, la gente non ha mai comunicato così poco da quando parla così tanto. Quando vado in treno mi sembra di essere nella tana dei grilli. E che si dice la gente? Se mi metto ad ascoltare in linea di massima sono conversazioni del tipo “ciao, sono in treno, sto per arrivare…”. E’ così indispensabile?
Quando io viaggiavo in Vietnam, Angela, la mia splendida moglie, restava con i bambini a Singapore, al sicuro. Facevo il corrispondente di guerra rischiando la vita e per tre settimane di seguito non le telefonavo mai. Ma era bello. Al mio ritorno era sempre una festa. Ce ci fossimo sentiti tutti i giorni forse non sarebbe stata la stessa cosa.
Angela ha sempre sostenuto ironicamente, che la più terribile invenzione dell’umanità è stata la televisione, peggio della bomba atomica perché alla televisione non sopravvive proprio nessuno. Ora mi prende per matto, perché da quando sono in Italia la notte mi scopre davanti al teleschermo. Ma è la curiosità a guidarmi e poi il mio particolare punto di vista mi fa notare più facilmente alcune cose. Sai che vivo per mesi chiuso in una baita sull’Himalaya e questo mi aiuta a mantenere la distanza. In Italia, di fronte alla tv, comprendo però meglio il dilagare di tanta violenza anche all’interno delle famiglie. Appena la accendo – mi hanno messo in casa un tubo infernale che porta un’infinità di canali – ovunque vada vedo stupri, assassini, gente che urla, sangue…se tiriamo i bambini su così imparano anche loro a squartare le mamme. Non è strano, è ovvio, non occorre nemmeno uno psicologo, chiunque lo capisce, se ti alimenti di certa roba diventi quella roba, quindi orribile.
Che senso ha dare tanto spazio ad una certa cronaca nera? Il delitto di Cogne sembra essere una cosa a cui tutti sono interessati, ed anche i giornali pubblicano pagine intere. Avere dieci pagine su questo delitto è una forma di perversione.
Vedo una crescita enorme della violenza nella nostra vita, tutti i rapporti diventano sempre più violenti. Ovviamente anche perché la società ci impone situazioni sempre più insostenibili, poco spazio, poco tempo, poca riflessione, poco amore, ma l’esempio di questa costante violenza televisiva mi sembra che aumenti ancora di più i modelli su cui per automatismi naturali ci adeguiamo. Si fa a gara a chi urla di più. Non siamo educati ad agire diversamente. Se imparassimo a sorridere quando qualcuno ci insulta forse le cose cambierebbero.
Per la televisione ci vorrà una grande coscienza come per tutto il resto. Forse lo dico perché vivo in India, forse perché sono vecchio, ma l’unico modo per cambiare quello che ci circonda è cominciare a cambiare noi stessi, prendere coscienza della realtà. Solo prendendo coscienza di noi rispetto al nostro vicino, di noi rispetto alle cose che usiamo, allora faremo un passo in avanti.
F.M. Ti ho sentito dire che è necessario riportare l’etica nella politica, perché la politica deve essere etica. Regalando così una grande responsabilità a chi fa questo mestiere. Lo stesso richiamo all’etica dovrebbe valere per chi si occupa di informazione. Eppure entrambe le categorie professionali sembrano accomunate da un’inspiegabile reticenza quando si parla di pace. In una sorta di male interpretata par condicio si nota una tendenza generalizzata a non schierarsi mai completamente, lasciando sempre spazi disponibili a sottili distinguo. E’ carenza di coraggio, opportunismo o il pacifismo stesso può non essere una scelta univoca?
T.T. Trovo fondamentale riportare l’etica nella politica. La politica non può essere soltanto il giochino delle tre carte per fregare chi ti sta davanti. Se la politica diventa solo uno strumento per non andare in galera, allora abbiamo rinunciato alla civiltà. Il termine civiltà, viene anche dal fatto che si fonda una città, si sta tutti assieme, ci si danno delle regole etiche, cioè si toglie l’animalità al convivere. Per cui si supera la vendetta, tutti i miti dell’occidente sono fondati sul superamento della vendetta, che infondo potrebbe essere un istinto naturale, “tu ammazzi, io allora ammazzo”. La politica nasce proprio dal superamento di questo atteggiamento naturale. Se non riportiamo l’etica, cioè una serie di valori su cui tutti siamo d’accordo nella politica, allora facciamo solo del piccolo cabotaggio, tornando a vivere senza nessuna regola.
L’etica è importantissima, il grande problema della sinistra, su cui tutti si arrovellano, è che ha rinunciato alla propria etica. I comunisti poi, hanno fatto un errore madornale rinunciando ai principi sui quali avevano fondato un partito glorioso di cui mio padre era membro. Io non sono mai entrato nel partito, forse proprio perché già ci stava mio padre o perché c’era l’Unione Sovietica. Ma questa gente credeva in dei valori. Il mio babbo per tutta la vita ha creduto nella possibilità di una società più giusta, e come lui tanti altri.
L’errore è stato buttare il bambino con l’acqua sporca. Quel bambino andava tenuto, bastava lavarlo e gettare, semplicemente, via l’acqua.
Ora è necessario tornare a dei valori. Qui voglio essere chiaro. Non sono i valori di una religione, ne’ quelli di una ideologia marxista leninista, anche se chi ci credeva è giusto continui a crederci. Così come vorrei tanto che i cattolici credessero ai propri valori e che tutti trovassero una propria identità alle radici della loro storia.
I valori su cui possiamo metterci d’accordo non sono quelli scritti nei libri, non appartengono a nessuna biblioteca, ma vivono nel cuore di ognuno. Sono i più semplici. Esiste forse una civiltà che odia i bambini? E’ comune fare bambini ed amarli. Ed allora mettiamoci d’accordo: tu non ammazzi mio figlio, io non ammazzo il tuo. Se vogliamo scriviamolo pure, ma non ce ne sarebbe neanche bisogno, questi sono i valori di tutti.
Vivo in un mondo così diverso da noi, incontro le donne col burqa, gli uomini con le barbe, eppure quando si arriva al dunque siamo tutti uguali.
E’ importante però affrontare la tua domanda su “pace e par condicio”. Mia moglie è tedesca, sono stato per trent’anni un giornalista tedesco, ho sempre sentito forte nella Germania questo problema dei nipoti che chiedevano ai nonni “ma tu che hai fatto per fermare il nazismo?”. Questi vecchi spesso rispondevano di non essersi resi conto, di non sapere che ammazzavano gli ebrei; oppure si giustificavano dicendo di essere stati distratti dalle necessità quotidiane, la famiglia da mandare avanti, i bambini che non mangiavano. Spero non sia così, adorerei essere smentito e poter ammettere di aver sbagliato su tutto, – purtroppo da un anno a questa parte sembra che io, parlando dell’Iraq, sia stato Cassandra – secondo me noi siamo in una situazione molto simile, i nostri nipoti un giorno ci chiederanno: “Tu che hai fatto? Che hai fatto quel giorno nell’autunno del 2002 per dire che non volevi la guerra che poi ha portato queste terribili conseguenze? Vedi nonno, io ho quattro occhi, ho il naso strano, ecco ce l’ho per le malformazioni genetiche delle bomba atomica. Tu che hai fatto per impedirlo?”.
Ecco, noi siamo in questa situazione ed è oggi che dobbiamo dire e fare qualcosa. I distinguo sono inammissibili. Leggo con dolore certi editoriali di questi professori di definizione, che pontificano sul senso del pacifismo. Come se la lealtà, la verità, il divino, potessero essere chiusi nelle gabbie delle parole. Alcuni riescono persino a scrivere che è una colpa volere la pace. Brecht diceva “parlare di alberi è quasi un delitto”, oggi parlare di pace in questi tempi di guerra sembra essere un delitto. Credo che il silenzio sia già di per sé un orribile misfatto in questo momento, è un crimine stare zitti. Preferisco quelli che dicono “voglio la guerra”, almeno provo a parlarci, a discutere, a far comprendere le ragioni della pace. Lo dico tutti i giorni: parliamo a quelli che vogliono la guerra. I più orribili sono quelli che stanno zitti o quelli che distinguono “io sarei per il pacifismo ma non il pacifismo alla Gino Strada, io sono per un pacifismo diverso”.
La pace è la cosa più naturale, la gente vuole la pace. Certi intellettuali improvvisati, sui giornali e in televisione, complicano ciò che è semplice. Io dico sempre ai giornalisti: la vostra missione è semplificare ciò che è complicato. Oggi mi hanno chiamato per parlare del Kashmir. Lì la situazione è difficile. Ma se si continua a guardare in un conflitto chi ha ragione e chi ha torto non se ne esce mai fuori, si ritorna ad Adamo ed Eva. Guardiamo la situazione in Israele. Non cerchiamo chi ha ragione o chi ha torto, mettiamoci d’accordo. Troviamo non ciò che divide, ma ciò che unisce. E’ buono ciò che unisce, cattivo ciò che separa. Ad unire è il desiderio comune ad entrambi di vivere in pace. Gli israeliani non si divertono a sparare missili sulla folla o a bombardare gli ospedali dove sono stati portati i feriti, spero non siano diventati tanto crudeli. E i palestinesi non amano certo farsi saltare in aria. Dovrebbero dirsi: smettiamo di chiederci chi ha torto o ragione, troviamo ciò che ci unisce. E’ l’unico modo, ed è davvero così folle, così assurdo?
F.M. Nella tua vita hai scelto di non “appartenere” mai a partiti o associazioni. Oggi non solo hai voluto firmare l’appello alla pace di Emergency, ma hai anche affermato la necessità di esserci, di dover lottare. Cosa ti ha portato a prendere questa decisione?
T.T. Tutta la mia vita sono stato appartato, da giovanissimo avevo anche l’illusione che il giornalista dovesse essere obbiettivo, sai queste idee che si hanno sempre all’inizio. Poi mi sono accorto che, non solo non sarei stato obbiettivo, ma che mi piaceva essere soggettivo. E lo confessavo anche: non fidatevi di me, ho due occhi, due orecchi, un naso, una bocca, è chiaro che selezioni, che veda le cose a modo mio, però te lo dico con sincerità.
Istintivamente mi sono sentito sempre intrappolato nelle cose organizzate. Sono sempre stato uno che va per conto suo, un solitario, i miei più grandi compagni nei viaggi sono stati i libri, non gli altri uomini. Eppure questo appello di Emergency mi ha stanato.
Tu conosci la mia storia. Avevo chiuso con il giornalismo, avevo chiuso con la quotidianità. Le abitudini mi pesavano ormai, la vita era diventata una sorta di piovra con mille braccia che mi portava sempre nel banale, il telefono, i conti, le stesse situazioni…Volevo dedicarmi ad altre cose. Ed è anche comprensibile, trent’anni di viaggio “fuori”, sono voluto andare a vedere se potevo viaggiare “dentro”.
Poi l’undici settembre mi ha sconvolto, quello che sta avvenendo ora ancora di più. Ho trovato che l’appello di Emergency fosse perfetto, perché era essenziale, non pretendeva niente, non dava giudizi, diceva solo cose semplici: non ammazziamo, non vogliamo altri massacri. Impossibile non sottoscriverlo.
Poi ho sentito forte la necessità istintiva di dire la mia, di farmi vedere. Da quando ho firmato esco in piazza, mi faccio vedere in giro con la mia barba bianca, perché credo che questo sia il momento in cui bisogna farsi contare. E’ necessario poter dire “io c’ero”. Quando i miei nipoti o i loro figli chiederanno a chi mi è sopravvissuto: “ma quello là con la barba, cosa ha fatto a quel tempo?”, almeno potranno sentirsi rispondere che ha messo un lenzuolo bianco fuori ed ha urlato alla gente: cerchiamo di fare la pace, non andiamo in guerra.
Sento forte che ognuno deve fare qualcosa e sono felice di aver preso questa decisione. Mi piace anche apparire un po’ ridicolo a volte. Tutti dovremmo scendere da cavallo, smettere di prenderci troppo sul serio, è stupendo essere ridicoli. Alla mia età si può anche essere presi per matti, l’importante è far arrivare il messaggio. Una delle cose che mi ha fatto più piacere recentemente è ricevere il premio del “bambino permanente”, proprio io che detesto i premi e cerco di non accettarli perché credo siano tutti un inciucio. Ma questo sì che è davvero prestigioso, i bambini sanno.
Così questo bambino permanente trova sia bellissimo andare per le strade con i giovani a dire “non vogliamo la guerra”.
F.M. In molti, a sinistra, invocano quel recupero delle capacità progettuali e propositive eredità delle grandi utopie. Credi davvero che esista un sistema praticabile, alternativo a quel libero mercato che ritiene l’ipotesi bellica necessaria e che considera non gli uomini ma i consumatori “cui vendere prima gli stessi desideri, poi gli stessi prodotti”[2]?
T.T. Una delle accuse che mi si fanno è di essere utopico, come se fosse un difetto. Utopico è una bella definizione, perché deve essere negativa l’utopia?
Mi piace stare con i giovani, nel mio pellegrinaggio in Italia sono andato soprattutto nelle scuole. I giovani vogliono sognare, vogliono avere un’utopia, vogliono pensare che sia possibile un mondo migliore, e questo è il bello.
Allora perché definire l’utopia come negativa? Secondo me si può davvero cambiare il mondo, per farlo però prima dobbiamo riuscire a cambiare noi stessi. E’ chiaro che non possiamo consumare più di quanto già consumiamo o cercare di aumentare a dismisura lo standard di vita, anzi dovremmo cercare di ridurlo o perlomeno di non sprecare. E’ perverso pensare che progresso voglia dire crescita. Se si potesse restare così come si sta non sarebbe già ottimo? Ci sono persone meravigliose che vengono a trovarmi quando sono a Firenze. Fra queste un gruppo di famiglie che si vedono alla fine del mese e fanno il resoconto di quello che hanno comprato, si controllano nelle cose che consumano e si criticano quando è necessario. E’ bellissimo. Prendere coscienza. Solo prendendo coscienza di quel che si fa inutilmente si può capire quali siano le cose che realmente ci servono, utili davvero per vivere meglio, per prendere più tempo.
Pensiamo anche alla carne che oggi consumiamo. Non è che io voglia rendere la gente vegetariana perché vivendo in India lo sono diventato. Mangiate la bistecca, anche io l’ho fatto per la maggior parte della mia vita, ma fermatevi un attimo a riflettere sul fatto che la nostra società occidentale ha una macchina di produzione di vita e di assassinio che coinvolge milioni e milioni di animali, allevati per essere ammazzati. Non sentite che c’è qualcosa di innaturale in tutto questo? Nel produrre la vita solo per ucciderla. Io capisco un bel maialino ogni tanto, ma nell’allevarne delle migliaia per poi eliminarli in modo efficiente, c’è qualcosa di perverso. Secondo me, se noi avremo ancora una storia e qualcuno di quelli del futuro guarderà al nostro tempo, una delle immagine più assurde che vedrà, sarà quella delle vacche trasportate nei camion a migliaia per essere uccise in Inghilterra a causa della mucca pazza. Ovvio che era pazza, gli hai dato da mangiare altre mucche. Se ti dicono che hai mangiato dei bambini, diventi pazzo anche tu.
Un certo sistema vuole convincerci che abbiamo bisogno di avere sempre di più.
In Cina un grande Mandarino veniva mandato in un posto ricevendo alcune cose, ponti, strade, palazzi. Quando andava via, dopo dieci anni, dava al suo successore le stesse cose tenute in funzione. Non veniva mal considerato perché non erano aumentate di numero. Qualcuno potrebbe obiettare che la Cina è anche diventata una civiltà decadente. Sì, è vero, ma è successo quando si è incontrata con l’occidente, perché loro con la polvere da sparo ci avevano fatto i fuochi d’artificio, noi i cannoni.
Guardiamo all’Iraq. Se gli americani fossero onesti dovrebbero dire: ”Volete guidare continuamente la vostra automobile, averne altre due in garage, possedere tutta una serie di cose? Bene, allora dobbiamo andare a fare la guerra in Iraq, perché lì c’è il petrolio, così noi lo prendiamo e possiamo usarlo come ci pare”. Io capirei se dicessero così. Potrei perfino capire quella gente che dice ammazziamo altri duecentomila bambini ma a noi all’automobile non ci si può rinunciare, almeno le cose sarebbero chiare. Invece ci prendono in giro, ripetono: andiamo a liberare il popolo iracheno, a ristabilire la democrazia. Ci dicano la verità: vogliamo fare la guerra perché voi volete andare in automobile. Chi accetta che il prezzo sia ammazzare i bambini, è libero di farlo, la pagherà dopo, magari in un’altra vita sarà lui il bambino che muore perché qualcun altro non vuole rinunciare ai propri privilegi.
Vogliono convincerci che sia possibile rendere l’intero pianeta come noi, ma sappiamo bene che non è così, basta considerare che se solo tutto il mondo consumasse tanta carta quanta ne consumiamo noi in occidente, non ci sarebbero più alberi.
E’ necessario capire che se vogliamo evitare l’asimmetria che produce il terrorismo, – che è poi asimmetria politica ed economica, ma anche morale, bellica e sociale -, dobbiamo cominciare a condividere la nostra felicità. Soltanto se saremo in grado di limitare i nostri bisogni allora potremo fare un mondo diverso. Se noi vogliamo continuare ad essere come siamo, continuare a sprecare, allora sì che siamo di fronte ad un’utopia. Ma il consumismo ci consumerà, l’unico modo per non essere consumati dal consumismo è fare quello che Gandhi chiamava il digiuno. Portare Gandhi in Europa? Ma no! Scherzo, è ovvio! Mangiate pure! Ma evitiamo di ricomprare una cosa che funziona ancora. Usiamo la macchina vecchia. Abbiamo sempre bisogno di quattro orologi, dell’ultimo telefonino uscito, sempre una cosa nuova, in questo sistema perverso che costringe alcuni a lavorare come matti per produrre oggetti inutili ed altri a lavorare come matti per comprarli. Dobbiamo stare di più con i bambini, con le mogli, stare di più fra di noi, avere più tempo e consumare di meno. Dobbiamo smettere di assecondare questo sistema. Quindi esiste un altro modo, ma dobbiamo cominciare da noi, sempre da noi.
F.M. Ci hai regalato il tuo “Lettere contro la guerra”, invitandoci a riflettere, fermarsi, capire; tu stesso lo hai fatto insieme a noi. Oggi rischiamo ancora una volta che un’assurda volontà di guerra finisca con il distruggere il pianeta. In tanti, lottando per la pace, proviamo talvolta una sensazione di impotenza. Pur comprendendo le ovvie ragioni del potere, ci chiediamo ingenuamente perché i “grandi” del pianeta continuino a restare accecati dal dominio politico ed economico e non vedano quello che è evidente: non c’è futuro per nessuno se non si riapre un dialogo di pace. Insomma, parafrasando un vecchio proverbio cinese che a te piace molto: se l’umanità è la rana, chi ha costruito il pozzo e soprattutto riusciremo mai a vedere il cielo nel suo splendore?
T.T. Questa è una domanda difficile (si ferma qualche istante a riflettere).
In verità i potenti sono anche quelli che noi eleggiamo; e forse, quando andiamo a votare rappresentiamo il nostro lato peggiore, costruendo il pozzo anche con la complicità dei politici. Dovremmo essere certi che chi eleggiamo non ci coinvolga in una guerra.
(Si carezza la barba fermandosi ancora un attimo).
Dentro di noi c’è tutto, noi siamo quello che siamo e il contrario. Anche per me è così. Potrei sembrare un vecchio innocuo, buono, pulito, un babbo natale con la barba bianca. In realtà dentro di me c’è anche un assassino, un ladro, un adultero, però tutto questo è controllato dalla coscienza. La vita è fatta dagli opposti. L’equilibrio degli opposti è la vita. L’assurdità del mondo di oggi, specialmente quello occidentale che è sempre stato in qualche modo monoteista, è l’idea che bisogna far fuori uno di questi affinché l’altro predomini.
C’è nella natura umana qualcosa che ci porta a fare il contrario di quello che siamo, così ogni tanto prevale il nostro opposto. In realtà tutti desideriamo le stesse cose, se ci parlassimo davvero per bene sarebbe facile comprenderlo. Eppure succede che in alcune fasi storiche predomini soltanto il contrario di quello che vogliamo. Forse non riusciamo a tenere a bada l’altra parte di noi. Lo dico anche per la mia innominabile concittadina che avuto questo enorme successo con la sua rabbia meschina ed il suo orgoglio mal riposto. Un tale evento, dimostra che l’uomo ha dentro di sé anche un cane che tiene in qualche modo a bada, ma se qualcuno gli grida “dai lascialo libero” quello va a mordere tutti. Io dico: mettiamo la museruola al cane, l’innominabile concittadina dice: sguinzagliamolo.
Secondo me bisogna ritornare ai primordi di tutta la filosofia, alla domanda di fondo: “chi siamo?”. Se riuscissimo non dico a rispondere, il che è impossibile, ma a fermarci per domandarci più volte chi siamo, capiremmo che non siamo il nostro nome, non il nostro corpo, non la nostra storia. E forse saremmo in qualche modo capaci di far prevalere tra il bene e il male quello che ci è più comune. Quello che non ci separa ma ci unisce.
Non voglio sembrare troppo indiano, perché non è così, ho solo recepito alcune cose per osmosi vivendo in una certa civiltà da tanto tempo. Credo però sia importante avere più fiducia in quello che siamo.
Sai, molte religioni dicono che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza. Forse è l’uomo che ha fatto Dio a sua immagine e somiglianza, perché lo immagina un po’ come lui. Dovremmo invece credere che noi siamo espressione del divino. Non di un divino con la barba, buono, cattivo, che punisce colui che sbaglia, ma un divino molto più alto.
Una delle ragioni che mi ha portato a vivere nell’Himalaya, facendomi scegliere la solitudine, è una sensazione fortunata, che provo ogni tanto. Sento che la mia vita, quella piccola vita nata a Firenze nel 1938, cresciuta, andata a scuola, che ha scritto tre librini, non è quella che conta, ma fa parte di una vita molto più grande, stupenda, dentro l’universo, il sole, le montagne, gli alberi.
Quando mi sento in mezzo a questo, ogni contorno assume un’altra dimensione. Se tutti percepissimo in noi questa grandezza, se attingessimo a questa fonte che abbiamo dentro, se ci sentissimo parte di una grande cosa, la piccolezza della quotidianità ci parrebbe ridicola. Vedremmo anche con più ironia il nostro essere su questa terra e proveremmo più compassione nei confronti del prossimo.
La rana in fondo al pozzo, guarda e pensa che il mondo sia solo quello. Chi ha costruito il pozzo? Forse l’altra parte della rana, l’altra parte di noi stessi. Ci fa piacere pensare che lo spazio sia limitato, ci sentiamo più al sicuro restando lì, dentro al nostro pozzo, lo conosciamo. Invece il bello del mondo è che è enorme, vario, è che c’è tanto di bello, ma bisogna avere un po’ di coraggio per scoprirlo.
Abbiamo scavato il pozzo e tutta la vita, se ci pensi bene, non facciamo che costruirci gabbie, un po’ per sicurezza, un po’ per paura. Le abitudini, il modo di reagire alle cose: tutte gabbie dove ci chiudiamo tranquilli a fischiettare. Non che le gabbie siano nell’insieme inutili, anzi alcune, come la legge, sono necessarie, ma dobbiamo renderci conto del perché le facciamo e quanto possono essere anche costringenti.
Forse per guardare il cielo nel suo splendore dobbiamo semplicemente guardarlo stando insieme.
F.M. Negli anni in cui scrivevi da inviato speciale hai potuto più volte essere testimone degli interventi militari americani. Campagne che spesso hanno ottenuto l’unico risultato di alimentare e allargare i conflitti, talvolta con conseguenze devastanti. Penso prima al Vietnam, poi alle azioni contro i Khmer rossi e al crescere dello spirito nazionalista in Cambogia: “Per tre anni gli americani martellarono a tappeto le zone controllate dalla guerriglia con i loro B-52, ma è come se da ogni cratere di bomba fosse nato un guerrigliero…[3]”. Lo stesso è accaduto in Afghanistan ed ora il rischio è una nuova, cruenta, campagna in Iraq, già terribilmente provato da dieci anni di embargo. Da giornalista, ma soprattutto da uomo di grande sensibilità, quali scenari intravedi per l’Italia e per il mondo, nel caso in cui venga intrapresa una strada di guerra o, al contrario, si riesca a percorrere un cammino di pace.
T.T. Ho la sensazione che ci troviamo dinanzi ad un enorme bivio.
La guerra è una opzione di barbarie, la pace è la possibile scelta di un miglioramento dell’essere, dell’uomo.
Tutta la storia nostra è stata il tentativo di mettere ordine, di uscire da una situazione animalesca. Abbiamo costruito la famiglia, la società, messo delle regole, abbiamo compreso che non è possibile stare completamente nel mondo animale, perché noi abbiamo questa cosa fortunata – e anche maledetta a volte – che è la coscienza. La mucca si alza la mattina e non dice “guarda questa coda oggi come mi sta male, non sta dritta, ho gli occhi gonfi”, la mucca si alza, fa le sue cose e non ha mai momenti in cui ha coscienza di esserci. Noi invece ci alziamo e siamo ossessionati di continuo dalla coscienza dell’esserci. Però è anche grazie a questa che progrediamo, le mucche invece sono uguali da sempre.
Quindi questa coscienza, che ci differenzia dagli altri animali, ci ha portato a costruire delle cose.
Nell’ultimo secolo sembrava fossimo anche capaci di compiere il grande passo, ripudiando la guerra. Dopo l’orrore della bomba atomica, abbiamo visto che non potevamo continuare su questa strada. Se ragioniamo, restando per un attimo fuori dal calore della battaglia in cui vogliono tenerci, capiamo immediatamente che continuare con la guerra significherebbe oggi la nostra eliminazione. E’ così ovvio. Chiunque guardi la potenzialità dell’energia atomica capisce che questa strada ci porta all’eliminazione di noi come specie.
Dopo il’45 abbiamo cominciato una serie di tentativi per eliminare la guerra come mezzo per risolvere i conflitti internazionali, consapevoli che il ricorso a quelle armi che l’uomo si è dato, significa, prima o poi, far saltare tutto.
Le costituzioni successive al secondo conflitto mondiale, quella italiana, tedesca, giapponese, dicono tutte no alla guerra. Le nazioni unite sono nate, un po’ balordamente perché create con i criteri di chi aveva vinto, proprio con l’idea di mettere ordine e di evitare la guerra.
Oggi scegliere la guerra significa buttare dalla finestra tutto quello che con grande fatica abbiamo messo in piedi.
Per me è inconcepibile come negli Stati Uniti la gente non sia ancora scesa a milioni per le strade a dire “stiamo sbagliando”. La logica con la quale oggi l’amministrazione americana tenta di fare la guerra preventiva all’Iraq è la logica della giungla. Perché secondo quella stessa logica gli indiani potrebbero attaccare i pakistani, i pakistani potrebbero fare la guerra preventiva all’India per evitare che l’India faccia la guerra preventiva a loro. Insomma, ritorniamo indietro di secoli. Non è barbarie questa?
Dobbiamo riflettere un attimo sulla capacità distruttiva che possediamo.
L’uomo ha sempre ucciso altri uomini in maniera industriale, molto prima che l’industria fosse inventata. In Asia non posso viaggiare senza ricordare i massacri che sono stati fatti. Ad esempio da Gengis Khan, i cui soldati non riuscivano più a tagliare la testa alla gente perché le spade avevano ormai perso il filo, o da Tamerlano che aveva uno scrivano che riportava “oggi ne abbiamo ammazzati un milione”.
Gli assassini ci sono sempre stati quindi, ma la capacità che oggi abbiamo, di squilibrare gli elementi che costituiscono la vita: l’acqua, la terra, il fuoco e l’aria, non l’abbiamo mai avuta. Per la prima volta noi, non dico io, i mussulmani, gli ebrei, ma Tutti, abbiamo la piena potenzialità di distruggere il nostro pianeta.
Per questo è arrivato il momento in cui dovremmo fermarci tutti e dire: “ma vogliamo andare avanti così? Ecco perché l’ho chiamato anche una grande occasione.
Quando vedo Bush mi chiedo come sia possibile che non riesca a comprendere una questione tanto elementare. Non è un discorso politico, è un discorso proprio di coscienza, di buon senso, mia nonna lo avrebbe capito. Guerra oggi vuol dire mettersi su questa strada della barbarie. Barbarie non solo nel senso che uccidiamo altra gente. Barbarie nel senso che riusciremo prima o poi ad eliminare noi stessi, forse non proprio la razza umana, ma probabilmente le mutazioni sarebbero tali che nasceremo con la testa quadrata, quattro mani, due nasi.
Quando ero in Vietnam e vedevo lanciare l’agente orange che defoliava foreste senza apparentemente creare altri danni, molti pensavano che gli americani fossero bravi. Oggi vengono fuori una serie di orrori. Le donne, per esempio, prima non avevano quasi mai avuto il cancro al seno, oggi c’è un’incidenza di questa malattia come non si è mai vista in nessun altra parte del mondo. Una delle tante conseguenze, dopo trent’anni dalla fine della guerra, della roba sganciata dal cielo. I soldati mica lo sapevano, ma fatto sta che è così.
In Vietnam la vita è ripresa, le foreste allora spoglie sono di nuovo verdi, ma non come prima, verdi di altre piante, di altre erbe, di altri alberi.
Per cui la vita forse continua a suo modo, è una cosa spaventosa la forza con cui la vita riesce ad andare avanti. Ma quale vita? Quale? Quella che davvero vogliamo? Noi, come specie, potremmo anche sopravvivere, ma non noi, non io e te, ma degli esseri diversi. Noi per come ci conosciamo oggi rischiamo di eliminarci.
Allora dico: non è una buona occasione? Visto che siamo proprio lì, alla soglia. Noi ci illudiamo di essere eterni, ma se abbiamo fatto fuori così tante specie perché non consideriamo che potremmo anche fare fuori noi stessi.
Per questo mi pare evidente che la scelta della non violenza e della pace, siano una scelta obbligata. Basta fermarsi un momento per capirlo.
F.M. In Un indovino mi disse hai scritto: “raramente l’umanità è stata, come in questi tempi, priva di figure portanti, di personaggi luce”. Sembra insomma tramontato, con la fine dell’era moderna, il profilo dell’intellettuale guida. Letterati, artisti, uomini di scienza, architetti, musicisti, che fino a qualche decennio addietro, grazie anche a un circuito virtuoso, cercavano realmente di incidere sulla sfera del sociale. E spesso ci riuscivano, riscuotendo peraltro larghi consensi ed innescando meccanismi straordinari. Oggi quest’alta capacità progettuale sembra scomparsa. Assistiamo a un collettivo ripiegamento verso il privato che impedisce di sognare, di affrontare i grandi temi, di recuperare un comune sentire. Ritieni che il secolo appena iniziato saprà nuovamente produrre personaggi capaci di coinvolgere coscienze e indicare all’umanità nuove prospettive? Intravedi dei percorsi in atto sotto quest’aspetto?
T.T. E’ vero… quello che è mancato, ed io l’ho sentito forte, sono i grandi maestri. Forse quelli del passato erano frutto di una diversa società. Noi siamo vissuti in un tempo in cui tutti quelli che emergevano dovevano essere fermati. I giapponesi lo dicono a proposito dell’insegnamento nelle loro scuole: se un chiodo cerca di venire fuori bisogna subito rimandarlo giù.
Nel mondo di oggi tutti i miti sono effimeri, sono quelli della televisione. Si crea un personaggio e poi subito dopo ne segue un altro, è un ripetitivo fagocitare.
Le nuove generazioni crescono con questo continuo mutare dell’ideale, oggi un calciatore, domani un cantante, ma non c’è più spazio per il maestro. Non parlo solo dei grandi maestri, ma persino dei piccoli maestri, quello di scuola ad esempio. Quando io andavo a scuola, quello che mi insegnava a leggere e a scrivere era un maestro, un personaggio che ha influenzato tutta la mia vita. Adesso gli studenti non hanno alcun riguardo. Si è rotto il meccanismo che creava dei modelli, non di disparità ma di funzionale differenza. Oggi ognuno è il medico di se stesso, tutti hanno visto alla televisione qualcosa, o hanno sentito dire, tutti sono cuochi, sono architetti, tutti sono tutto e nessuno rispetta più niente. Abbiamo perso il senso di chi siamo, io lo ripeto e lo ripeto ancora, non sappiamo più bene chi siamo. Nessun mestiere ha più valore agli occhi altrui, uno lavora tutta la vita per affinare certe capacità e poi tutti sono convinti di saper fare le stesse cose. Questo crea un grande disorientamento perché la gente non ha punti di riferimento, le ideologie sono finite, la religione ha perso il suo appeal. Eppure i giovani cominciano a cercare altro, aspirano alla spiritualità, vogliono credere ancora in dei valori, e questo è positivo.
Tu mi chiedi se vedo prospettive. Certamente sì, perché l’anelito c’è, è evidente, ed in fondo si tratta solo di tempo. Tant’è che gli orientali dicono: “quando il discepolo è pronto arriva il maestro”.
F.M. Durante la conferenza stampa del 27 settembre, Sergio Cofferati ha più volte ribadito quanto fosse importante che persone tanto diverse dialogassero insieme. Proprio la diversità potrebbe diventare linfa vitale per alimentare una cultura della pace. L’equilibrio non si raggiunge omologando ogni cosa, e tu lo sai bene. In Un indovino mi disse scrivevi parlando della Cina: “Non è triste? Non tanto per i cinesi. Ma per l’umanità in genere, che perde molto nel perdere le sue diversità e nel diventare tutta uguale. (…) E’ nell’armonia fra le diversità che il mondo si regge, si riproduce, sta in tensione, vive”. Quali passi possono innescare meccanismi virtuosi che c’insegnino a coltivare una cultura delle differenze.
T.T. Come far comprendere l’importanza della diversità?
E’ difficile, bisogna amare per capire, bisogna avere occhi per guardare, orecchi per sentire. Ma se questo materialismo continua non ci riusciremo. Per apprezzare la diversità prima è importante trovare cosa abbiamo in comune e non quel che abbiamo di diverso. Dobbiamo accettare che la diversità non è un’offesa a noi, ma che è frutto di un’altra storia, è bella, è un arricchimento, ognuno ha la sua, poi ci troveremo strada facendo.
Io amo la diversità. Un’altra perversione del nostro mondo è voler ridurre tutti uguali. E’ ridicolo pretendere che l’occidente abbia il monopolio della cultura, della civiltà, del progresso, della dignità della donna.
E’ così bello il saluto degli indiani: namastè, riconosco e saluto la divinità che è in te. Se tutti ci “riconoscessimo” in questo modo sarebbe facile trovare un accordo.
Incontrarmi con persone tanto diverse e parlare di pace in completa sintonia con tutti è stata una sorpresa.
Io non sono mai stato un cattolico, sono scappato dalla chiesa da piccolissimo, certo ho il crocifisso dentro di me, ma non a livello cosciente. Non avevo mai visto prima Padre Alex Zanotelli, eppure mentre lo ascoltavo scoprivo che le sue erano le mie stesse parole. Vuol dire che in qualche modo c’è qualcosa dentro di noi, chiamala anima, che anela ad identiche cose. Specie alla fine della vita ti accorgi che hai sempre di meno di personale da perseguire perché hai capito che non è questo che conta ormai, tutto l’individualismo lo hai già attraversato. Era curioso che anche questa persona non pensasse più al suo, abbiamo fatto lo stesso cammino.
Mi ha molto sorpreso anche sentire Sergio Cofferati, un uomo che è completamente “dentro il mondo”, ma che in verità ha già una distanza. Come se quel suo essere “dentro il mondo” fosse dovuto ad un imperativo morale, ad un appello di spartire un’esperienza, una sapienza che gli appartiene. Dopo l’incontro abbiamo parlato un po’ insieme, mi diceva: “verrei anche io nell’Himalaya” è bello questo, ed è bello che me lo abbia confidato.
Qualche volta tutti dovremmo isolarci per ritrovare il sentore della voce di dentro. Quella voce la senti solo se stai zitto, non la puoi percepire nella cacofonia della quotidianità. Ed è proprio quella voce ad essere, secondo me, il minimo comune denominatore a cui tutti potremmo rifarci. E’ la voce di quei valori, come dicevamo prima che non appartengono ad una scrittura sacra, ad un vangelo, ma che sono quelli semplici, umani.
F.M. In molti, nell’ultimo anno, abbiamo cominciato a provare vergogna per la nostra normalità. Come se continuare a condurre la vita d’ogni giorno fosse connivente con un disegno criminale intenzionato ad annullare le coscienze. L’impegno è diventato un dovere verso noi stessi e le generazioni future. Eppure, intorno, la soglia della sensibilità sembra ancora troppo bassa, langue nell’indifferenza. Forse non è più tempo di dire “io non sapevo” o “come avrei potuto intervenire?”. Credi che fare finta di niente equivalga in qualche modo ad essere complici di chi uccide?
T.T. Assolutamente sì. Io lo dico sempre riferendomi al nazismo. Durante il nazismo uno poteva fare diverse affermazioni “io non ho mica ammazzato gli ebrei, io non sapevo nulla, sì vedevo sparire delle persone ma mai avrei potuto immaginare quello che accadeva”. In verità erano tutti inconsapevoli assassini. Oggi ho forte la sensazione che se non facciamo sapere da che parte stiamo, se non abbiamo il coraggio di schierarci, se non ci ribelliamo, diventeremo complici di un massacro interminabile. Ci basta semplicemente tacere per diventare tutti degli assassini.
F.M. Gino Strada, il fondatore di Emergency, si schernisce se qualcuno tende a esaltare l’incredibile lavoro che da anni, con tenacia e coraggio, sta portando avanti. A chi lo considera speciale ribadisce di compiere semplicemente il proprio dovere: ”faccio soltanto quello che ogni medico dovrebbe fare”. Camus affermava metaforicamente che se non abbiamo l’opportunità di comportarci da eroi è comunque essenziale saper essere dei buoni medici. Se non si è eroi, né medici, quale contributo possiamo realisticamente offrire per diffondere una cultura di pace?
T.T. Innanzitutto prendere coscienza, capire la sofferenza altrui, rendersi conto che i corpi soffrono tutti, anche quelli dei cosiddetti nemici. Poi c’è chi ha il dovere di raccontarla questa sofferenza. Una mia battuta è che se la storia non viene raccontata è come se non fosse mai esistita. Questo vale ancora di più per la sofferenza, se non la racconti, se non rendi gli altri partecipi della sofferenza altrui, nessuno capirà mai. I giornalisti e tutti coloro che in questo momento hanno la possibilità di comunicare, di parlare alla gente, hanno un dovere morale, devono fare il proprio mestiere non solo con la testa ma con il cuore. Tutto il discorso che faccio sulla pace, sulla non violenza, è legato a questo prendere coscienza. Ci sono momenti nella storia in cui l’uomo è al meglio di sé. Io l’ho visto nella mia vita. Firenze non è mai stata così bella come nel momento dell’alluvione. E’ terribile dire queste cose, ma Firenze era davvero bellissima. La gente era di una solidarietà, nessuno pensava al mio ma tutti pensavano al nostro. Perché l’acqua aveva fatto a pari con tutto. Ora non dico che bisogna tornare alla miseria, al terrore, alla tragedia, per dare il meglio di noi, ma in qualche modo c’è da domandarsi come sia possibile che l’uomo sia diventato così indifferente alla sofferenza altrui, così incapace di reagire moralmente agli orrori del nostro tempo. Sarà questa ricchezza, ma non siamo mai stati tanto poveri spiritualmente da quando siamo diventati così ricchi. In qualche modo la miseria tira fuori il meglio della gente. In India, in fondo si vive con molta più dignità, mentre noi pensiamo a noi stessi soltanto come corpi. Corpi da lucidare, corpi da rimpinzare, corpi da vestire con le cose firmate. Il grasso dei nostri corpi ha fatto si che abbiamo perso la nostra sensibilità per tutto ciò che non è materia. L’uomo occidentale è davvero diventato grasso, e in questo grasso si è persa molta della sua anima. E allora torno a dire, si tratta di prendere coscienza, di fare un passo verso l’alto. Un mondo migliore è possibile, solo se tutti noi diventiamo migliori.
F.M. Sempre Gino Strada, ribadisce che, pur non avendo alcuna simpatia per i dittatori – ed è assurdo che qualcuno possa anche pensarlo – può essere comprensibile che chi veda morire figli e fratelli senza medici e medicine, non possa fare altro che provare odio e desiderio di vendetta. Nessuno è più pericoloso di chi non ha nulla da perdere. E’ strano, tutto appare fin troppo chiaro, la guerra è strumentale solo a intenti imperialistici e agli interessi economici delle grandi multinazionali, eppure, ancora una volta, vogliono farci credere che tutto questo sia indispensabile per sconfiggere il terrorismo. Parliamo allora delle ragioni degli altri, di quei popoli e di quei paesi designati come i nemici da combattere.
T.T. Io trovo che oggi sia arrivato il momento di parlare una lingua più semplice di quella del passato. Io per primo ho usato e uso queste parole: imperialismo, interessi, è così, è ovvio, lo continuiamo a dire in molti, ripetutamente, eppure sembra non servire. Bisogna far capire, specie alle nuove generazioni. la sofferenza. E’ vero, certo, non ho mica dubbi nella mia testa, quello che gli americani vogliono fare in Iraq, ha a che fare con il petrolio, l’ho anche scritto. Ma questo spiegare è stato inutile, gli argomenti devono essere semplici, bisogna dire che non vogliamo uccidere in nome di qualche cosa che non condividiamo. Bisogna portare al cuore della gente la sofferenza degli altri, solo così sarà possibile costruire un ponte su questo abisso di incomprensione.
Gli americani operano sulla base di quello che loro percepiscono come un interesse nazionale, Saddam Hussein opera sulla base di quello che lui percepisce come un interesse nazionale. Ma con questo noi cosa centriamo? Non capiamo niente, capiamo soltanto che la gente soffre e muore; ha ragione Gino Strada, sono i corpi che si rompono e che lui li va a rimettere insieme.
In questo momento, per far sì che la gente si decida a mettere un cencio bianco fuori dalla finestra per dire non voglio la guerra, non serve spiegare l’imperialismo, ma appellarsi all’umanità, al fatto che nessuno vuole essere un assassino. Con un certo linguaggio abbiamo irritato generazioni intere e se ricominceremo con il politichese finiremo con non l’essere capiti o per essere ancor peggio, fraintesi. L’ultima frase del testamento spirituale di Einstein – che aveva involontariamente contribuito all’orrore della bomba atomica – ammonisce: “Ricordatevi la vostra umanità”. Forse solo ricordandoci della nostra comune umanità riusciremo a discutere il futuro.
Preferisco non affrontare le ragioni, né degli uni, né degli altri, ma andare oltre. Anche palestinesi e israeliani dovrebbero fermarsi un momento invece di continuare a rinfacciarsi quello che è stato fatto da entrambi. Il problema tra loro è enorme, è ormai inutile andare a ricercare chi ha ragione e chi a torto.
Ti dico di più.
Secondo me in Israele non avranno mai pace, finché questa grande civiltà non troverà la forza di perdonare i tedeschi e dimenticare Hitler. Perdonare Hitler, pensa che bello, dopo le aberrazioni che ha compiuto, gli ebrei lo perdonano. Allora sì che troverebbero pace. L’idea che loro siano gli unici ad aver sofferto non è vera, hanno sofferto in tanti nella storia dell’umanità. Questa pretesa di avere l’esclusiva della sofferenza rende impossibile la pace, se continueranno a far soffrire gli altri come hanno sofferto loro, non ci sarà mai una soluzione. Soltanto quando capiranno che il loro dolore è anche il dolore degli altri riusciranno a risolvere contraddizioni e problemi.
Lo stesso Islam è cinquecento anni più giovane della cristianità, mille più del buddismo, cinquemila più dell’induismo, gli vogliamo dare un po’ di tempo, passare attraverso il suo rinascimento, il suo illuminismo, per raggiungere il suo approccio alla modernità. E’ giovane. Costringerlo nel ghetto delle bombe, farlo sentire nemico, vuol dire semplicemente alimentare il fondamentalismo. La pace è dunque l’unica via percorribile se l’uomo vuole sopravvivere in quanto uomo. Poi dovrà fare un passo verso l’alto, migliorare, fino a diventare meno materia.
F.M. Il nostro non è il migliore dei mondi possibili e non appartiene certo a noi il monopolio del bene. I popoli che qualcuno vuole trasformare unicamente in nemici hanno fatto nascere grandi civiltà che molto ci hanno insegnato. Mentre si diffonde l’intenzione di negargli umanità e cultura, di togliergli il diritto ad essere diversi, ragioniamo invece su cosa potremmo ancora imparare da loro.
T.T. Secondo me il primo passo da fare è smettere di parlare di nemici. Pensa al nostro paese, abbiamo nemici noi? No, non ne abbiamo. Forse nessuno ha dei veri nemici, ma esiste il bisogno di crearli.
Dobbiamo cominciare a ragionare in termini che non esistono nemici, ma persone con una diversa cultura, con le quali possiamo intenderci sulla base di ciò che ci lega: una comune umanità.
La diversità è importantissima. Tutti parlano dell’importanza della biodiversità nella natura, perché non la diversità umana? Io trovo che sia così bello che ci siano uomini che vivono in un modo alternativo al nostro.
Spogliamoci un attimo dall’arroganza così occidentale, perché noi abbiamo questa arroganza. Persino io che m’impegno tanto per capire gli altri, infondo sento che in certe situazioni sono ancora un vecchio colonialista. Dobbiamo onestamente renderci conto che noi non abbiamo il monopolio di niente, non della civiltà, non della cultura, non della saggezza. Se per un attimo riuscissimo a guardare gli altri senza sentirci superiori, avremmo il privilegio di scoprire che esiste un’incredibile bellezza e molto da imparare.
Vengo di recente da un’esperienza in Afganistan. Sono meravigliosi gli afgani. Lo sono fisicamente, nel modo in cui si comportano, sono antichi, sono personaggi che sembrano uscire dalla Bibbia, dall’Antico Testamento. Ci regalano la possibilità di viaggiare nel tempo, come se possedessimo davvero una macchina capace di riportarci nel passato. La stessa sensazione l’ho avuta quando sono arrivato in Cina, ero uno dei primi giornalisti, dopo il ’49, cui era permesso di nuovo di vivere lì e di viaggiare. Con mia moglie Angela siamo arrivati in certe zone della Cina profonda, dove il tempo sembrava essersi fermato a duemila anni fa, le facce della gente, i comportamenti.
Allora perché non godere di questo?
Io non dico mica che dobbiamo diventare tutti afgani. Io sono fiorentino ed orgogliosissimo di essere tale. Solo che, a differenza di Firenze che crede di aver scoperto tutto nel rinascimento e per cui il mondo poteva anche finire allora perché tanto non c’era più nulla da imparare, trovo meraviglioso andare a fare l’esploratore, scoprire gli altri, convinto che si impari sempre qualcosa. Credo che la diversità sia già di per sé un insegnamento.
Trovo sempre molto bella questa storia che credo mi abbia raccontato il Dalai Lama. Nel ’49 una prima delegazione di tibetani andò a Londra per cercare aiuto. Erano vestiti con i loro abiti tradizionali: pelli, cappelli, calzature fatte di feltro, venivano direttamente dall’altopiano. Per farli spostare da un posto all’altro li portarono nella metropolitana. I tibetani guardavano stupiti questi disperati che leggevano il giornale scendendo le scale, questa gente che non si parlava, che non riusciva a comunicare, e loro, che erano venuti pensando di trovare aiuto, domandarono alla persona che li accompagnava “cosa possiamo fare per voi?”. Gli parevano così orribili quegli uomini, immersi in una vita spaventosa. In verità è un po’ così.
Immagina adesso di essere un pastore mongolo che viaggia abitualmente con il suo cavallo in immense praterie e di vedere noi chiusi nelle nostre automobili a litigare, ci prenderesti perlomeno per matti.
Insomma, ogni tanto dovremmo guardare noi stessi con un po’ di senso d’ironia.
F.M. Hai più volte ribadito che stiamo correndo un grave pericolo ma che questo momento può anche rappresentare “una buona occasione”. Cosa possiamo fare perché sia davvero così?
T.T. Comprendere a fondo come stanno le cose.
Accendiamo la televisione e rendiamoci conto che siamo vittime di una vasta ed ingannevole propaganda, incontriamo un mussulmano e rendiamoci conto che ci hanno insegnato che dobbiamo avere il sospetto di lui, rendiamoci conto di quale sia davvero la realtà in ogni momento della giornata.
Io nelle conferenze che tengo nelle scuole ripeto ai ragazzi: volete imparare cosa sia la coscienza? Andate a casa e mangiate il primo boccone coscientemente, masticate coscientemente. Se ad ogni passo che facciamo ci rendiamo conto di dove stiamo, di chi ci è attorno e di come siamo diventando vittime, facciamo secondo me un primo passo essenziale.
Questa è una buona occasione, perché non ne abbiamo ancora avute di così spaventosamente grandi; è dunque il momento di riflettere se vogliamo davvero evitare questo passo di barbarie.
F.M. Hai trascorso gran parte della tua vita in Oriente, come corrispondente in Asia del Der Spiegel. Il razionalismo occidentale sovrapposto all’ironia fiorentina non ti ha mai abbandonato, tanto da farti considerare per lungo tempo la meditazione una pratica utile solo ad evadere i problemi del mondo. Poi, dopo trent’anni d’oriente, hai voluto tentare. Pongyang, nord della Thailandia, a seguire un rigorosissimo corso. All’inizio non riuscivi a concentrarti e ti sentivi anche un po’ sciocco. Alla fine hai “imparato” e negli ultimi tempi hai addirittura deciso di stabilirti nell’eremo dell’Himalaya indiano. Una scelta meditativa, lontana dal mondo, a seguire i ritmi e le voci della natura. Dopo l’undici settembre hai però sentito l’esigenza di lasciare il tuo rifugio per “scendere in pianura”. Mi viene il dubbio che in realtà tu non abbia cambiato idea. Ma che la tua esperienza rappresenti un riuscito tentativo di conciliare due universi. Una strada con una propria spiritualità, convinta però della possibilità di cambiare il mondo agendo e risvegliando le coscienze. E’ una mia folle lettura o credi davvero che esista una terza via, una forma di meditazione occidentale capace, anch’essa, di guidarci all’amore assoluto?
T.T. (Ride di gusto, allargando le braccia. La voce profonda nelle esclamazioni gioiose diventa quella di un bambino).
Le tue domande sono degli inviti a nozze.
Io sono un curioso, per natura devo andare dove mi sento dire che c’è qualcosa, non a caso ho fatto questo mestiere per trent’anni. Sono uno di quelli che se sente un botto, invece di scappare va verso il botto.
Sono fiorentino, Firenze pretendeva di aver già capito tutto, questo mi stava stretto e sono scappato.
Anche questa mia ricerca, la meditazione, è curiosità, voglia di capire. Trent’anni viaggi fuori e poi senti dire che è possibile viaggiare dentro. Cosa? Come? Dove? Qual è la porta?
Tutte le esperienze, compresa quella di vivere solo, sono secondo me parte di questa curiosità. Forse vivere sull’Himalaya è anche legato alla mia età, sono stato tanto nel rumore del mondo è naturale che adesso mi piaccia il silenzio.
Per quanto riguarda la meditazione, le pratiche asiatiche e così via, non voglio assolutamente confondere chi ci leggerà. Non ritengo affatto sia necessario partire per l’India o meditare per trovare la via dello spirito. Permettete a me che di mestiere ho fatto sempre quello che va lontano di continuare a farlo. Ma non è la via quella, io lo dico a tutti, non faccio l’agente di viaggio per l’India e non voglio portare tutti lì. Proprio per niente, sarebbe terribile se venissero tutti dove sto io. No! Voglio star solo! Quando desidero incontrare gli altri preferisco tornare a Firenze.
Molte persone provano curiosità per l’Asia perché ha mantenuto vive alcune tradizioni che anche noi avevamo e che invece abbiamo soffocato nella modernità.
Te lo racconto in un modo più divertente. Quando sono arrivato in India una signora una sera a cena mi ha chiesto a proposito dell’Italia: “Ci sono ancora a Roma quelli che credono in Giove?”. In India è così, se c’era una religione cinquemila anni fa per loro è normale che sia sopravvissuta.
Invece noi abbiamo aggiunto una sopra l’altra le esperienze soffocando ogni volta quello che c’era sotto, secondo quella logica del meglio che supera il peggio e del bene che sconfigge il male. Bella pretesa!
Per cui noi stessi abbiamo avuto una tradizione spirituale, tutto il misticismo occidentale è fondato su questo, non la chiamavano meditazione ma contemplazione.
Chi volesse davvero fare un’esperienza di questo tipo, – tanto prima o poi tutti la vogliono fare perché secondo me il bisogno c’è, serpeggia dovunque, altrimenti perché tanti giovani vanno in Oriente e tanti altri diventano buddisti – non ha bisogno di andare lontano o di cambiare religione. Quando racconto che io ho passato tre mesi in un ashram, alzandomi la mattina alle cinque, a cantare inni, a pulire statue, tutti mi chiedono subito dove sia, ed io rispondo “accanto a casa tua”. Molti hanno sete e non pensano che la fonte è a un passo. E’ pieno di chiese, di statue da lucidare vicino casa, di santi che prendono la polvere. Io vado lontano perché questa è la mia natura, l’ho sempre fatto, non faccio altro che essere quello che sono, ma non sono imitabile, non voglio essere modello per nessuno, non sono un maestro. Questo è solo il mio modo di gestire la mia spiritualità.
Certo che c’è la terza via. Secondo me è proprio quella di combinare questa sopravvissuta esperienza orientale con tutto quello che l’occidente ha fatto in altri sensi. In parole molto povere, l’uomo orientale è andato nei meandri nel sé dimenticandosi il mondo fuori, l’uomo occidentale è andato completamente nel mondo fuori, l’ha cambiato, gestito, pesato, misurato, preso nelle sue mani, ma si è dimenticato il sé.
Quindi l’uomo occidentale ha perso le proprie radici spirituali, possiede il mondo esterno e costruisce la bomba atomica ma anche tante cose positive, mentre l’uomo orientale possiede una profonda ricchezza interiore ma, essendo estraneo al mondo esterno, muore di fame, di sete, di malattie.
Allora, eccola lì la terza via, riuscire in qualche modo, rispettando le nostre tradizioni e rispettando quelle degli altri, ad unire il positivo di oriente e occidente. Impariamo a condividere. I vaccini, ad esempio, possono essere utili a tutti, possiamo condividerli, perché alcuni popoli devono avere un’altissima mortalità infantile? E portiamo nel contempo da noi un po’ di quell’altra vita che è quella dello spirito. In questo modo forse vivremmo tutti più in pace.
Invece oggi globalizzazione vuol dire che noi andiamo da loro a dirgli come si fanno i pozzi, come si diventa ricchi, come si diventa bravi, come si diventa moderni, perché solo moderni si può andare avanti, e così roviniamo il mondo e cementifichiamo tutto ciò che è diverso rendendolo arido come noi.
Allora io dico: bene mandare delegazioni ad insegnare agli altri a fare i pozzi, ma facciamo anche venire delle delegazioni a vedere quanto siamo più infelici noi. Questo potrebbe bilanciare.
La terza via la dobbiamo tutti trovare, anche gli orientali. Perché oggi quella forma di suicidio che l’Asia sta facendo nel perseguimento del nostro modello di sviluppo, renderà anche loro infelici. La Cina sta buttando a mare tutto ciò che le apparteneva per diventare come Hong Hong, come Singapore. Finiranno con l’odiarci per aver imposto un modello di sviluppo che ha eliminato tutte le loro radici, che ha fatto delle città giungle di grattacieli, distruggendo tutto quello che era cinese, tutto quello in cui si potevano identificare.
F.M. Prima di salutarti ti chiedo “un dono di pace”.
T.T. Mi vengono in mente tante cose.
C’è questa bella frase che è all’origine di tutto l’induismo che dice (me la ripete prima in indi e poi traduce): “Se dalla totalità togli la totalità resta la totalità, se alla totalità aggiungi la totalità resta la totalità. Viva la pace, viva la pace”.
Significa che siamo tutti la stessa cosa, questo dobbiamo capire. Siamo su questa piccola palla tutti un’unica cosa e non puoi togliere o mettere un pezzo per farla meglio. Siamo una totalità, siamo la divinità, e lo siamo tutti insieme.
Questa è la vera globalizzazione: rendersi conto che siamo dipendenti gli uni dagli altri. E’ come l’uomo che voleva eliminare la propria ombra perché gli dava noia, allora si mette a fare una buca e scava e scava per seppellirla. Finalmente vede l’ombra in fondo alla buca e si rimette a coprire la buca, ma l’ombra ritorna in cima. L’ombra non la possiamo eliminare. Siamo un tutto noi.
L’altro regalo è un verso di una bella poesia di Tagore:
Il sole tramontando guarda questa terra e dice: “Cosa farete ora che io devo andare via?”. Lontano nella terra una lucina ad olio, piccola piccola, risponde: “Oh maestro faremo quello che possiamo”.
Lo trovo così bello. Diciamolo ai giovani: “anche tu puoi essere una piccola luce”. Noi siamo parte di questa grande cosa ed ognuno di noi è anche una piccola luce e possiamo fare qualcosa, facciamo quello che possiamo. Ti saluto così: ognuno faccia una piccola cosa e tutti assieme faremo un grande cammino.
F.M. Siamo stati seduti per delle ore uno di fronte all’altra, le gambe incrociate, fuori un giardino di olivi vegliati da un Ganesh sorridente, Firenze sullo sfondo. Il cielo limpido della mattina si è trasformato in temporale nelle prime ore del pomeriggio, poi è tornato di nuovo il sereno. Sono le sette, l’ultimo raggio di sole si riflette sulla barba bianca di Tiziano e nei suoi occhi luminosi.
Saranno gli argomenti che abbiamo trattato, il calore con cui Angela e Tiziano mi hanno accolta nella loro casa, la semplice disponibilità. Quel non voler essere maestro ma uomo capace di trasmettere molto di più di chi ha la pretesa di insegnare. Sarà che le donne negli ultimi giorni di gravidanza piangono sempre; il risultato è che io sia commossa. Stiamo facendo qualcosa, è una piccola luce, lasciamo che i bambini del futuro possano vederla.
Da un anno tengo uno straccio bianco fuori dalla finestra nei vicoli del centro di una capitale troppo distratta. In questi giorni, finalmente, ne ho visto spuntare timido un altro, questo mi fa sperare che presto si moltiplicheranno. Ormai sono grande, ma non ho smesso di credere ai miei sogni.
Federica Morrone